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giovedì 12 gennaio 2017

Gustavo Adolfo Rol : lettera del 1951 al fratello Carlo


Interessanti spiegazioni di Gustavo Adolfo Rol contenute in una lettera del 1951 al fratello Carlo:

«Circa l’ipnotizzare, magnetizzare, mettersi in catalessi e in stato di sonnambulismo, non ho mai ottenuto nulla di tutto questo. Io mantengo integra la mia coscienza durante i miei esperimenti, almeno per una parte di me stesso sufficiente ad impedirmi di andare “in trance”. (...).
Però è vero che, in qualsiasi momento, anche mentre sto parlando o mangiando o lavorando, mi avviene di astrarmi improvvisamente e mi si dice allora che io rimango lì, “imbambolato e fisso” e se m’interrogano non rispondo e, se non sono addirittura “fisso”, i gesti normali dell’azione che stavo compiendo avvengono naturalmente, ma assai rallentati, come se in me la sola vita vegetativa sopravvivesse. Così mi accadde recentemente, mentre guidavo un’automobile ed andavo a forte andatura. I miei amici si accorsero dell’espressione del mio viso che qualcosa in me stava succedendo. Più non rispondevo alle loro domande ma, istintivamente, avevo distaccato il piede dall’accelleratore e poi lo tenevo appoggiato al pedale quel tanto che bastava per non lasciare arrestarsi la macchina. La guida continuava ad essere perfetta e, mentre l’automobile si muoveva ormai lentissimamente, io non figuravo al volante, se non alla stregua di un semplice automa.
Sono questi i momenti nei quali avvengono certi miei sdoppiamenti “per intervento richiesto”, ossia quando mi si “invoca” (bada bene: non “evoca”).
Esempio: Cannes, 21 febbraio 1950, ore 22,45: stavo giocando a bridges all’Hotel Majestic. Improvvisamente il mio sguardo si fa “di vetro” ed i miei movimenti divengono lentissimi, mi fanno sembrare ad un uomo meccanico. Essendo il mio partner allo stato di “morto”, condussi al termine la mano in un silenzio perfetto ma in maniera incredibile, come poi mi raccontarono, indovinando tutte le impasses, come se le carte dell’avversario mi fossero note. Quel mio stato anormale durò circa dieci minuti: il tempo di terminare quella mano e di incominciarne un’altra. Poi improvvisamente, quasi fossi “ritornato in me”, ridivenni scherzoso come Tu mi conosci. Non erano ancora le ventitrè quando mi si chiamò al telefono: “Rol, Rol, lei ha compiuto un miracolo!”, una Signora mi gridava dall’altra parte del filo. “La mia bimba stava malissimo con la febbre a quaranta gradi ed il medico ci dava poche speranze. Fu allora che la invocammo, ed io gridai: ‘Rol, Rol, mi aiuti in nome di Dio, chieda a Dio di lasciarglielo fare, che la mia bambina non muoia!’. E lei è apparso, lo sa? Lo abbiamo veduto tutti. È venuto vicino al lettino con le mani in avanti ed ha fatto dei gesti. Ora la bimba respira bene, la febbre è andata giù ed il medico dice che è un vero miracolo…”. Ci siamo inginocchiati per ringraziare Iddio.
Di questi fatti te ne potrei citare parecchi, come quello della contessa Maria B. (nata F.). Essa mi invocò, da Torino, una sera della scorsa estate, mentre stava soffrendo orribilmente in seguito ad un incidente d’auto (commozione cerebrale). I suoi dolori scemarono immediatamente. Io mi trovavo in quel momento a Torre Pellice, a Villa Olanda, in compagnia degli Andronikov e di Petrella da Bologna, il pittore (stavo in quei giorni terminando un quadro). La mia “assenza” durò pochissimo, a detta dei miei amici, e questa volta mi accorsi “di essere andato altrove” e “perché vi fossi andato” tanto che dissi: “Scusatemi, ma quella poveretta mi chiamava disperatamente. Ora è tranquilla, ma domattina andrò a vederla a Torino”.
Il giorno appresso i suoi familiari mi raccontarono che la sera innanzi la malata mi chiamava disperatamente ed ottenne sollievo. Da quel momento incominciò a guarire e speditamente.
Terzo esempio: estate 1948; seduta nel mio studio, a Torino. Apparizione di una luce vagante, la quale, poco a poco, assume la forma di due mani che si contraggono. Improvvisamente io grido con altra voce che non è la mia: “Simecek, Simecek, sculpteur à Lausanne, qu’on m’aide! Je ne veux pas mourir, pas encore, je ne suis pas prêt!” [Simecek, Simecek, scultore a Losanna, che qualcuno mi aiuti! Non voglio morire, non ancora, non sono pronto!] L’indomani scrissi al sindaco di Losanna chiedendogli se in quella città abitasse un Sig. Simecek, scultore, e se potessi averne l’indirizzo. Pronta risposta: “Lo scultore Simecek dimora al n. 36 Av. des Alpes. È gravemente infermo”. Partii per Losanna. Non appena giunsi nella camera del malato, fui colpito dalle “sue mani” contratte sul petto, nello spasmo del dolore. Soffriva di un qualche cosa, come un polipo nella regione cardiaca: era condannato a morire, sospendendo l’esecuzione di un’opera d’arte colossale iniziata: scultura in basso rilievo sulla parete del St. Triphon, di tre statue simboliche monumentali (venticinque metri in altezza!). Ed ecco questo artista cecoslovacco che mi dice: “So che sareste venuto, io ho chiamato, qualcuno doveva pur venire. No, non voglio morire, voglio terminare quest’opera che mi renderà immortale. La gloria mi appartiene: tutta la mia vita fu tesa verso un sogno di gloria”. La sua vita me la raccontò durante i due giorni della permanenza al suo capezzale.
Sì, un grande artista, ma un povero uomo attaccato alla materia attraverso il falso compromesso di un’ambizione, sia pure artistica, ma smisurata. Ricordavo le parole che mi aveva suggerite “in spirito” durante la seduta a Torino. “Je ne suis pas prêt (à mourir)” [Non sono ancora pronto a morire].
Compresi allora quale fosse la mia missione. Non sarebbe guarito, no questo miracolo non sarebbe avvenuto, ma Dio voleva farlo beneficiare di un dono ancora più grande, in cambio di una certa purezza che, a causa dell’arte, sopravviveva nel suo cuore di artista (com’è facile comprendere in questa luce tutta la tragedia ed il destino di Wagner, uomo pessimo e genio sublime!)
Come, ed in quale misura agissi su di lui, lo ignoro. Lo confortai circa il suo stato di salute, facendogli anche sperare nella guarigione, ma per intanto lo esortai ad essere più umile, perché anche la gloria più grande che l’uomo può raggiungere, è sempre nulla in confronto del Signore. (...). 
Così gli dissi che “sapevo” che non sarebbe guarito ma che Dio voleva farlo beneficiare di un qualche cosa ancor più grande: l’evoluzione dello spirito. Da quel giorno le sue condizioni fisiche migliorarono sensibilmente.
Egli mi scrisse settimanalmente lunghe lettere dove trapelava un nuovo meraviglioso sentire.
“Più vado innanzi per questa strada e più rimpiccioliscono le mie statue di St. Triphon e, con esse, io, mentre più grande, sempre più grande, si fa in me e dinnanzi a me, la coscienza di quel che Dio è” (sono parole sue).
Ogni tre o quattro mesi mi recavo al suo capezzale. Lo trovavo sempre più pallido ma con una luce nuova, meravigliosa e sempre più splendente nei suoi occhi intelligentissimi. Quando già si parlava di guarigione (le radiografie mostrarono che il polipo “avait presque totalment dégagé le coeur de son entreinte” [aveva quasi totalmente liberato il cuore dalla sua stretta]) egli mi disse, confuso e sottomesso (ma felice): “J’ai tout compris” [Ho compreso tutto], null’altro. E mi stringeva le mani in maniera molto significativa. (…).
Nello scorso settembre una lettera della moglie mi avvertiva: “È sopravvenuto un collasso. Ha ripreso a soffrire, ma si dimostra sereno. Vi chiama sovente e si dice felice. In quei momenti, mi spiega, ravvisa una luce verde. ‘Voilà Rol’, il me dit et moi même une fois, j’ai vu cette lumière qui l’appaisait” [‘Ecco Rol’, mi dice e io stessa una volta ho visto questa luce che lo tranquillizzava].
Quando “compresi” che il momento era venuto, ne informai Natalia e Costantin e ci recammo presso di lui. Morì sorridendo e vi era tanta serenità intorno a Lui che né la moglie sua né i suoi amici, ebbero a piangere».

(da: Rol, G.A., “‘io sono la grondaia...' Diari, lettere, riflessioni di Gustavo Adolfo Rol”, a cura di C. Ferrari, 2000, p. 138-143)

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